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La storia di Piero Mandelli

Martedì 7 aprile 2020 – In Humanitas Gradenigo il dottor Piero Mandelli è una delle figure-calamita di questa emergenza da Covid-19. Ovunque lui passi, trova sempre qualcuno che gli si attacca per chiedergli qualcosa. Non lo aiutano né la statura importante che lo rende visibile da molto lontano né il ruolo che la situazione gli ha assegnato: nei giorni del Coronavirus, il dottor Mandelli si occupa infatti di gestire i pazienti che arrivano in Pronto soccorso.

Tocca a lui tirare le fila di questa Ellis Island del Terzo millennio che è diventata l’area di Emergenza e urgenza dell’Ospedale. In reparto e in quale reparto, in Terapia intensiva o in subintensiva, trasferito in un altro reparto o in un altro ospedale: il paziente affetto da Covid-19 transita per almeno un momento sul computer che il dottor Mandelli “ha preso in affitto” in un ufficio dei Sistemi informativi. Tocca a lui segnarne la destinazione previo confronto con gli altri attori del percorso di cura, in primis con Bruna Giugno che dalla Gestione operativa monitora come un radar la situazione dei cento pazienti Covid dell’Ospedale.

«C’è un calo degli accessi in Pronto soccorso, segno che le misure restrittive stanno funzionando. Non arrivano più così tante persone con i sintomi del Coronavirus, i contagi rallentano e altrettanto fanno i pazienti ricoverati in subintensiva. Tuttavia, guai a rilassarsi, a prendere questi numeri per troppo indicativi o a pensare che la fase critica sia passata. La cronaca di questi giorni ci dice che l’emergenza s’è spostata nelle residenze per anziani, dove basta un caso per far precipitare la situazione: in tempi relativamente brevi toccherà anche a noi occuparcene, quando arriveranno in Ospedale pazienti dall’elevata intensità di cura e destinati a essere lungodegenti», osserva il dottor Mandelli.

Lui che s’è trovato a gestire all’improvviso questa situazione («Non ero preparato, ma chi era preparato?»), e che dal 15 marzo è riuscito a pranzare a casa una sola volta, si preoccupa dei pazienti ma anche dei colleghi medici e infermieri, quelli fermati alla linea di partenza perché positivi («Ammalarsi un mese fa era peggio di adesso, era come precipitare in un pozzo nero senza sapere se c’era o meno il paracadute») e quelli che con lui condividono la vita del Pronto soccorso («Quando l’emergenza sarà finita ci toccherà ripartire con la nostra solita andatura frenetica, non avremo neanche il tempo di riprendere fiato»). Si preoccupa anche per sé, di quella tosse persistente che però scompare del tutto appena arrivato a casa: «Faccio la doccia e dico che un altro giorno è passato e che lentamente tornerò alle mie cose». Riflessioni condivise sulla sedia di legno di una sala d’attesa vuota, pranzando a metà pomeriggio con un panino improbabile come la melanzana che lo accompagna: «È il mio angolino segreto, mangio un biscotto e torno al lavoro».